mercoledì 4 novembre 2015

Oriana Fallaci intervista Sandro Pertini


Roma, dicembre 1973

L’uomo non ha bisogno di presentazioni. Si sa tutto su Sandro Pertini, presidente della Camera. Si conosce il suo bel passato di antifascista condannato all’ergastolo e a morte, il suo bel presente di socialista privo di fanatismi e di dogmi, il suo coraggio, la sua onestà, la sua dignità, la sua lingua lunga. Nessun segreto da svelare su questo gran signore che della libertà ha fatto la sua religione, della disubbidienza il suo sistema di vita, del buon gusto la sua legge. Nessuna scoperta da annunciare su questo gran vecchio dilaniato dalle dolcezze e dai furori, collerico, impertinente, elegante di dentro e di fuori, con quelle giacche sempre impeccabili, quei pantaloni sempre stirati, quel corpo minuto, fragile, che nemmeno le legnate degli squadristi riuscirono a frantumare. È noto che ama la moglie, i quadri d’autore, le poesie, la musica, il teatro, la cultura, che è un uomo di cultura e uno dei pochissimi politici di cui possiamo andar fieri in Italia. 
È anche un uomo che ha tanto da dire, senza esser sollecitato. Infatti non si intervista Sandro Pertini. Si ascolta Sandro Pertini. Nelle sei ore che trascorsi con lui, sarò riuscita sì e no a piazzare quattro o cinque domande e due o tre osservazioni. Eppure furono sei ore di incanto.

SANDRO PERTINI. Sicché gli ho detto: «Senta, la politica se non è morale non m’interessa. Io, se non è morale, non la considero nemmeno politica. La considero una parolaccia che non voglio pronunciare». E lui: «Ma caro Pertini! In politica, fare i morali è un’ingenuità!». E io: «Senta, mi dia pure del sentimentale o dell’ingenuo. Tanto non me ne offendo, per me anzi è un onore. Ma non esiste una moralità pubblica e una moralità privata. La moralità è una sola, perbacco, e vale per tutte le manifestazioni della vita. E chi approfitta della politica per guadagnare poltrone o prebende non è un politico. È un affarista, un disonesto». Gli ho detto proprio così, cara Oriana, e aggiungo: se li esamina bene, questi che affermano in-politica-essere-onesti-è-un’ingenuità, scopre che sono disonesti anche nella vita privata. Ladri di portafogli. Oh, la politica io l’ho sempre vista come una missione da assolvere nell’interesse del popolo, al servizio di una fede. L’ho scelta come una fede, come un lavoro, nello stesso spirito dei preti che dicono «Sacerdos sum in aeternum». Lo capiva anche mia madre. Mia madre non condivideva le mie idee: era una cattolica, lei, una credente. Però era fiera di me e ripeteva: «Ah, se il mio Sandro fosse stato un soldato di Cristo, che bel soldato di Cristo sarebbe!». E aveva ragione. Perché io non avrei fatto il parroco o il cardinale. Avrei fatto il missionario, il...

ORIANA FALLACI. Non a caso c’è quella sua frase: «Se mi volto a guardare la strada che ho percorso, posso dire di aver speso bene la mia vita».
Sì. E posso dirlo in coscienza, Oriana. Io ho fatto una scelta da giovane e, se per un prodigio tornassi indietro, rifarei la stessa scelta. Perché era una scelta giusta. Vede, io di solito non vado ai ricevimenti. Preferisco stare con mia moglie, la sera, o leggermi un libro o recarmi a teatro. Ma a volte capita che debba andare ai ricevimenti e allora vedo quei professionisti ricchi e provo una tale pena per loro. Hanno conquistato il denaro, sì. Hanno conquistato il successo e il potere. Eppure sono frustrati perché si sono accorti di aver avuto una vita vuota. Non vorrei essere al posto loro quando viene l’ora dei lupi. Ingmar Bergman la chiama l’ora dei lupi, cioè l’ora antelucana, l’ora in cui ci troviamo soli anche se accanto c’è la compagna della nostra vita, e non possiamo mentire a noi stessi. La mia ora dei lupi è alle cinque del mattino, quando mi sveglio magari per riaddormentarmi, e nella penombra analizzo ciò che ho fatto il giorno prima.  Ne esce un esame di coscienza che si allunga nel tempo, nel passato, e deve credermi, Oriana: non ci trovo errori. Oh, non che possa negare d’aver commesso errori. Chi cammina talvolta cade. Solo chi sta seduto non cade mai. Però i miei errori sono frange che invariabilmente nascono dal mio caratteraccio. Non sono errori sostanziali. Il mio caratteraccio... Sono sempre stato un passionale, un impetuoso. Anche da giovane e prima di finire in carcere, sa? Non posso darne la colpa al carcere, alle sofferenze, e anzi ora son migliorato. Questa mia carica, se non altro, ha servito a imbrigliare un poco le mie impazienze. A impormi un po’ di self-control. Oh, quante persone ho investito con le mie ire improvvise, i miei atteggiamenti rigidi, le mie interruzioni! Compagni di partito, colleghi. Perfino come presidente della Camera, sa? Chi è stato investito da me non immagina certo quanto me ne rammarichi, quanto me ne sia sempre rammaricato. A mia discolpa posso dire soltanto che la mia passionalità è sempre stata morale e non fisica, la mia violenza è sempre stata verbale e non materiale. Non ho mai fatto a pugni. Ho preso tante legnate dai fascisti e non gliele ho mai restituite. E sebbene ritenga giusto che un uomo di fede abbia violenze perché, quando una cosa è stonata, l’uomo di fede deve dirlo con violenza, dopo me ne dispiace. Così all’ora dei lupi brontolo: accidenti, ho fatto male a lasciarmi trascinare dall’ira con quel mio compagno, con quel mio collega. Oggi gli offro un caffè e cerco di farmi scusare. Io sono umano, Oriana. Ecco perché sono un cattivo politico.

Un cattivo politico?
Sì. In politica bisogna essere freddi, bisogna essere cinici. Io non sono né freddo né cinico e di conseguenza... Le racconto una cosa sola. Nel 1929 mi denunciò un fascista: Icardio Saroldi. Mi riconobbe per strada, mi fece seguire, arrestare, e fu in quell’occasione che rimasi dentro quindici anni. Tutta la mia giovinezza, cara Oriana. In carcere ci sono andato coi capelli neri e ne sono uscito coi capelli grigi. Ebbene, nel 1945, subito dopo la liberazione di Milano, giunge un corriere politico da Savona e mi dice: «Icardio Saroldi è stato preso e stanno per fucilarlo». «Per quale ragione stanno per fucilarlo?», chiedo. «Perché ti ha denunciato nel 1929», risponde. «Ah, no! Se è per questo, no. Mi oppongo. Sarebbe una vendetta personale e di vendette personali io non ne ho mai volute. Io la lotta l’ho sempre vista nel suo complesso, non come lotta al singolo.» Poi do ordine di liberarlo e, qualche tempo dopo, costui manda sua moglie a ringraziarmi. Esauriti i ringraziamenti, questa moglie mi dice: «Posso chiederle un altro favore?». «Prego, signora, si figuri.» «Ecco, le dispiacerebbe farmi una dichiarazione dove afferma che mio marito non la denunciò?» Mi arrabbiai. Gridai: «No, signora, no, io sono buono ma due volte buono significa imbecille». La mandai via e... poi Saroldi entrò nel Movimento sociale. Mi spiego? Un altro non se la sarebbe presa come me, non si sarebbe meravigliato. Io invece ne soffro e mi irrigidisco... Un po’ la storia del questore Guida. Lei sa che al presidente della Repubblica, della Camera, del Senato, spetta viaggiare col saloncino, che poi è una vettura speciale attaccata al treno. Sicché vado a Milano e, quando il saloncino è fermo su un binario morto perché sto facendo colazione, il mio segretario dice: «Il questore Guida ha chiesto di ossequiarla, signor presidente». E io rispondo: «Riferisca al questore Guida che il presidente della Camera Sandro Pertini non intende riceverlo». Mica perché era stato direttore della colonia di Ventotene, sa? Non fosse stato che per Ventotene, avrei pensato: ormai tu sei questore e voglio dimenticare che hai diretto quella colonia, che vieni dal fascismo, che eri un fascista. Perché su di lui gravava, grava, l’ombra della morte di Pinelli. E a me basta che Pinelli sia morto in quel modo misterioso quando Guida era questore di Milano perché mi rifiuti di accettare gli ossequi di Guida. Oriana, io non sono capace di far compromessi! 

Per questo non ha mai voluto diventare presidente della Repubblica?
Eh! Eh! Non mi sarei proprio sentito a mio agio, lì al Quirinale! Infatti ogni volta che qualcuno tentava di farmi eleggere, io appoggiavo un altro candidato. L’ultima volta ho appoggiato Leone. E non me ne pento. È un uomo che ha una grande carica umana e tra i democristiani non è un clericale, è un laico vero. Inoltre non si dà arie, non è presuntuoso, ed è un gran giurista. Il che giova a un capo di Stato. È un uomo giusto al posto giusto, sì. E gli sono amico sebbene abbia avuto molti scontri con lui, ma io mi chiedo chi non abbia avuto scontri con me. E sono felice di non trovarmi al suo posto perché... Oriana, parliamoci chiaro: io non me la sarei sentita di mandar telegrammi gentili a certi capi di Stato. Non me la sarei sentita di stringer loro la mano. Io, quale presidente della Camera, mi son rifiutato di ricevere il presidente del Sud Africa, l’ambasciatore greco, l’ambasciatore spagnolo, l’ambasciatore portoghese. Eh! Non hanno messo piede, quei signori, qui dentro! Non ce lo mettono. Si rivolgono al mio segretario, come il questore Guida, spiegano di voler rendere omaggio al presidente, e io gli fo rispondere che il presidente non gradisce affatto il loro omaggio: il presidente non li riceve. Al Quirinale ci sarei costretto sennò dovremmo rompere le relazioni diplomatiche, scoppierebbe una guerra: qui invece! Qui al massimo dichiarano guerra a Pertini, come l’ambasciatore sovietico. Sapesse che diverbio ho avuto con l’ambasciatore sovietico pei fatti di Praga! Voi ristabilite l’ordine coi carri armati, gli ho detto, proprio alla maniera dei fascisti che lo ristabilivano con le baionette. Voi volete l’ordine che c’è nelle galere, nei cimiteri! Ci siamo lasciati male. Così male che non è più venuto da me e io non sono più andato da lui. Però anche con Nixon mi lasciai freddamente: «Buongiorno, buongiorno». Eh! Lui pronunciò quell’espressione pace-nella-sicurezza, e io replicai: «No, no, presidente. Io ho detto pace e basta. Pace tout-court». Eh! Lo sapevo ben io cosa intendeva, Nixon, con la parola sicurezza. C’era anche Kissinger, io non sapevo che fosse Kissinger ma lo guardavo perché mi fissava e intanto suggeriva le cose a Nixon. Non so cosa gli suggerisse. Forse gli diceva che m’ero opposto al Patto atlantico e alla guerra in Vietnam. E si comportava con la stessa freddezza di Nixon. Io, con altrettanta freddezza. Figuriamoci, dunque, se sto al Quirinale a ricevere le credenziali di quello e di quell’altro!

D’accordo, però...
Non mi sembrò un tipo umano, Nixon. Mi sembrò molto arrogante, molto pieno di sé. Uh, quella mascella! Non mi piace proprio, quella mascella. E quei lineamenti da bulldog. Non mi piacciono proprio. Denunciano una prepotenza. Intendiamoci: fino al momento in cui ci scontrammo, con me non fu arrogante. All’inizio, anzi, fu quasi cordiale. Disse che conosceva il mio passato, che mi faceva onore, che anche gli ufficiali americani avevano elogiato il mio coraggio... Ma quando chiarii che ero per la libertà di tutti i popoli e che certi focolai di guerra mi sdegnavano, tutto cambiò. E durò tre quarti d’ora, il colloquio. Infatti fuori c’era Fanfani che scalpitava. Forse temeva che gli portassi via il suo turno.

Insomma, Pertini, lei è ancora l’uomo che fece pianger sua madre perché aveva chiesto la domanda di grazia.
Lo stesso uomo, lo stesso! Se una cosa va contro la mia coscienza, io non ci sto. Per esempio, quando ci fu da firmare il telegramma dei presidenti delle assemblee europee alla giunta cilena. Era un telegramma duro ma finiva con le parole: «Vogliate-credere-ai-sentimenti-della-nostra-alta-considerazione ». Saltai su e: «Cos’è questa storia?». «Non vuol dire nulla, si tratta di politesse française», risposero. E io: «C’è anche la politesse italienne. Io non firmo». Allora telefonò Edgard Faure, il mio collega francese. Uomo spiritoso, simpatico, scrittore di romanzi gialli. «Pertini, quella formula.» E io: «No, caro collega, no. Io l’alta considerazione non gliela do a quegli assassini che hanno ammazzato Allende, a quei criminali che hanno dimenticato perfino cos’è un giuramento per gli ufficiali d’onore». «Ma noi teniamo alla sua firma, Pertini.» «Se ci tenete, togliete l’alta considerazione. » Bè, la tolsero. Il telegramma partì come volevo io. E qui dentro mi comporto nello stesso modo. Perché, mi ascolti, Oriana: finché sono presidente lo sono nei termini voluti della mia coscienza e, se cercano di costringermi a fare qualcosa che non mi convince, me ne vado. Do le dimissioni. Subito. Io nel mio discorso di insediamento ho parlato della Resistenza e ho detto le cose chiaro e tondo: dinanzi ai fascisti. Durante le interrogazioni sul Cile ho commemorato Allende con un discorso assai forte: dinanzi ai fascisti. Dopo i fatti di Praga ho commemorato Jan Palach: dinanzi ai comunisti. Ho anche reso omaggio ad Alessandro Panagulis quando i colonnelli lo hanno condannato a morte. E ho detto cose per cui si sono alzati tutti in piedi: dai comunisti ai fascisti. Lo stesso per Palach. Lo stesso per Allende... Sì, Oriana: sono ancora l’uomo che fece piangere sua madre perché aveva presentato domanda di grazia.

Pertini, si è pentito mai di averla fatta piangere?
Oh, sì! Se penso che le scrissi: «Io ti considero morta per ciò che hai fatto...». Se penso che la tenni due mesi senza posta... Ero esasperato ma commisi ugualmente una crudeltà. Me ne resi ben conto il giorno in cui la censura lasciò passare una lettera dei miei amici di Savona. Era una lettera in cui mi dicevano: Sandro, tu la stai ammazzando questa povera vecchia. Lei non è colpevole, Sandro: fummo noi a cercarla e chiederle di domandare la grazia. Lei rispondeva no, non devo farla la domanda di grazia perché il mio Sandro non vuole, gliel’ho promesso, gliel’ho giurato, voglio esser degna di lui. Ma noi insistemmo: signora, suo figlio sta morendo, solo lei può salvarlo. E una madre, pur di salvare il figlio, si aggrappa a un ferro rovente. Appena seppi la verità, le scrissi e... L’avrei rivista nel 1943, la mia mamma. Per pochi giorni. E poi non l’avrei rivista più... Dice che i tedeschi avevano occupato la casa dove lei viveva sola. Dice che dormivano lì e lei ne soffriva tanto. Si ribellava, diceva: «Mi fate le prepotenze perché non c’è mio figlio! Ma verrà, mio figlio, a mettervi a posto!». Si ammalò, in quel periodo. Cadde da una sedia e si ammalò. I compagni di Milano lo sapevano e me lo tennero nascosto. Temevano che corressi ad abbracciarla e così mi facessi arrestare dai tedeschi. E io non la rividi più, la mia mamma. Morì nel 1945, lo seppi durante la Liberazione. Il destino. Mia moglie entrò nel mio studio con una compagna e disse: Sandro... Oh! Mi scusi, Oriana... Ma io ho amato così immensamente mia madre... Dice che stava sempre seduta sul muricciolo... C’era un muricciolo dinanzi a casa mia... E la gente passava e le diceva: «Cosa fa, signora Gin, cosa aspetta?». Perché la chiamavano signora Gin. E lei rispondeva: «Aspetto il mio Sandro». Per anni e anni e anni. Tutti gli anni che son stato in galera...

Pertini, non le capita mai di maledire gli anni passati in galera?
Senta, sarebbe da spavaldi dire sono-contento-di-aver-vissuto-quindici-anni-in-prigione. Parliamoci chiaro, Oriana: la mia giovinezza s’è esaurita nella rinuncia. Ero un giovane ardente, esuberante: lo sapevano tutti a Savona. Così quella rinuncia ha pesato su me. Oh, se ha pesato! Però non li maledico quegli anni, non maledico il fatto di aver pagato quel prezzo. Un uomo di fede non può sfuggire ai sacrifici e deve pagar di persona. Altrimenti non è un uomo di fede. Io, in carcere, pensavo: non sono qui dentro per un reato comune ma per aver difeso la mia fede. E la fierezza compensava la rinuncia. D’accordo, ogni tanto v’era un cedimento. Quella mattina ad esempio in cui udii le campane di Ventotene e aprii la finestra e mi investì la primavera, un profumo di fiori... Sa, i fiori che sbocciano la notte e all’alba spandono il loro profumo... E mentre ascoltavo quelle campane, mentre aspiravo quel profumo, giunse l’eco di un canto d’amore. Un canto che si levava da una barca di pescatori. E mi prese come un capogiro, come un dolore per questa vita che entrava dalla finestra e che io non potevo toccare... Si ridestarono in me tutti i desideri, tumulti di desideri... Può immaginarli, Oriana, i desideri di un giovane che non ha ancora trent’anni. Ma io mi strinsi la testa tra le mani, mi buttai un po’ d’acqua fredda sul volto e mi dissi: «Non fare il cretino, Sandro, non lasciarti cogliere dalle nostalgie». Oriana, se io fossi stato in carcere per un reato comune, per bancarotta fraudolenta, che so, per un assegno a vuoto, che so, io... mi sarei suicidato. Perché, se ci stai per un reato comune, la galera è orrenda. Se invece ci stai per una fede politica e sai di rappresentare un simbolo, ecco: la tua giornata ha un senso e la tua cella non è più buia. Io non sono credente ma in carcere ho letto la storia dei primi cristiani e ho capito quel che mi raccontava mia madre quand’ero bambino. Li ho capiti i martiri che, per rifiutarsi d’accendere due granelli d’incenso sotto la statua di Cesare, si lasciavano sbranare dai leoni. E ho capito Cristo, ho ammirato pazzamente la vita di Cristo. Perché è la vita di un uomo di fede, è la vita di un uomo. Un uomo è un uomo quando vince il dolore e non tradisce la propria idea. Io non l’ho mai tradita, Oriana.

Lo so. Lo sanno tutti. Infatti nessuno parla male di Pertini. Nemmeno gli avversari, i nemici.
Sì, ed è una consolazione come il giorno in cui Leto... Leto, il capo dell’OVRA. Molto intelligente, molto preparato, anche se era il capo dell’OVRA: lo dica pure. Del resto nessuno è più informato di lui sugli uomini politici italiani. Ebbene, il giorno in cui mi consegnò i documenti che ho usato per il mio libro Sei condanne e due evasioni, Leto ci appoggiò le mani sopra ed esclamò: «Pertini, bisogna dire che non c’è mai stata un’oscillazione nella sua condotta. Non c’è proprio nulla da dire contro di lei, non c’è un neo in tutta la sua vita». Però ho pagato così duramente, Oriana. Ho pagato anche con la morte di due fratelli... No, non ho alcuna difficoltà a parlare di quello che s’era iscritto al Partito Fascista. Lo amavo tanto... Eravamo due amici prima che due fratelli... Avevamo fatto insieme la prima guerra mondiale e... Pippo era molto diverso da me. Era estroverso, cordiale, e non capiva nulla di politica. Nulla. Sa perché si iscrisse al Partito Fascista, nel 1923? Perché, durante una manifestazione, si vide sputare addosso dagli operai. Faceva l’ufficiale di carriera e... Il destino. Ci togliemmo reciprocamente il saluto. Se per caso ci incontravamo per strada, io guardavo da una parte e lui dall’altra. Se io andavo da mia madre, lui non ci andava. Se lui andava da mia madre, io non ci andavo. Per non vederci. Gli riparlai soltanto nel 1925, dopo che ero stato arrestato e processato a Savona. Ormai libero, facevo di nuovo l’avvocato. E Pippo venne al mio studio e, piangendo come un bambino, confessò che almeno tre volte s’era avvicinato al carcere per visitarmi. Non aveva avuto il coraggio di presentarsi per timore che lo rimproverassi. Poi andai in Francia. Poi tornai, fui arrestato di nuovo, processato di nuovo, condannato di nuovo, stavolta all’ergastolo e allora... Allora lui uscì dal Partito Fascista e a quarantun anni morì. Di crepacuore.

Cosa significa morto di crepacuore?
Significa morto di crepacuore. Di dolore. Di strazio. Era sano, lo colse un infarto cardiaco. E il pensiero di non essermi riconciliato con lui mi schiantò in modo tale che in breve tempo diventai canuto. Una sera il direttore del carcere mi osserva sbalordito ed esclama: «Cosa è successo, Pertini?». «Perché?», rispondo. «Perché avete i capelli bianchi, Pertini. » Ecco la storia di mio fratello Pippo. E se Pippo ha commesso un errore, ha pagato. E io con lui... Io con lui... E poi avevo un altro fratello che si chiamava Eugenio. Tra me ed Eugenio c’erano solo due anni di differenza. Così crescemmo insieme: al collegio insieme, al ginnasio insieme. Poi lui andò in America e, quando tornò, io ero in carcere da tanto tempo. Ho ricostruito per caso la sua via crucis. L’ho ricostruita dopo la Liberazione, attraverso un maresciallo dei carabinieri di Genova. Venne da me e mi chiese: «Lei è parente di Eugenio Pertini?». «Sì, è mio fratello.» «Ah! Ora capisco tutto.» E mi raccontò che un giorno del 1944 aveva incontrato Eugenio e gli aveva rivolto la stessa domanda: «Lei è parente di Sandro Pertini?». «Sì, è mio fratello.» «Ah! Devo darle una brutta notizia. Suo fratello è stato fucilato a Forte Boccea l’altra mattina.» Glielo aveva detto convinto che fosse vero: io ero stato condannato a morte, con Saragat, e la notizia della mia evasione non era giunta in Liguria. Così Eugenio era caduto su una poltrona, come svenuto, e... Vede, allo stesso modo in cui Pippo non capiva nulla di politica, Eugenio non aveva mai fatto della politica. Oltretutto era un po’ claudicante. Ma dopo quella notizia si iscrisse al Partito comunista e si abbandonò a una attività sfrenata. Fu arrestato mentre attaccava manifesti contro i nazisti. Fu picchiato selvaggiamente, poi condotto al campo di Bolzano dove gli chiesero di nuovo: «Sei parente di Sandro Pertini?». «Sì, era mio fratello.» «Era?» «Me l’hanno fucilato.» «Macché fucilato! Dirige la Resistenza.» E lui si mise a piangere di gioia, m’hanno raccontato, e da quel momento si comportò ancora meglio. Lo portarono a Flossenbürg e... Questo è il destino, cara Oriana, il destino! Perché sono stato a Flossenbürg, e ho fatto i calcoli, e ho scoperto che nello stesso momento in cui alla testa dei partigiani inneggiavo alla libertà riconquistata in Milano... alla stessa ora dello stesso giorno... 25 aprile 1945... mio fratello veniva fucilato nel campo di Flossenbürg... Mio fratello Eugenio e... prima Pippo e poi Eugenio e... Oriana... mi creda... abbiamo pagato... Oddio!

Pertini, mi perdoni, Pertini. Mi perdoni d’averla lasciata parlare di questo.
Non importa. Non bisogna aver paura di piangere. Non bisogna frenare le lacrime quando vogliono uscire. Un uomo deve saper piangere. Ma lei deve capire perché uso così spesso il verbo pagare.

E la parola destino.
Il destino. Lo chiami destino, le chiami coincidenze, però le coincidenze della mia vita sono coincidenze eccessive per sembrare solo coincidenze. Pensi al mio incontro con Mussolini, poco prima della liberazione di Milano. Vengo a sapere che i rappresentanti del CLN Alta Italia sono riuniti da Schuster, così mi precipito all’arcivescovado, salgo su per una rampa della scalinata, e giù per l’altra rampa vedo scendere un vecchio in uniforme circondato da gerarchi. Un vecchio molto pallido, molto scavato. Resto un po’ incerto e poi dico a me stesso: «Ma quello è Mussolini!». Era proprio Mussolini che s’era appena recato da Schuster per dire che era pronto ad arrendersi purché nei suoi confronti fossero applicate le norme dei Diritti delle Genti. Quando Schuster parlò di Diritti delle Genti io risposi: «Se si arrende, sarà consegnato al CLN. Il CLN lo affiderà a un tribunale del popolo e giustizia sarà fatta». Allora intervenne il prefetto di Milano, e disse che io non avevo assolutamente a cuore le sorti di Milano: se Mussolini fosse morto, i tedeschi avrebbero messo la città a ferro e fuoco. E a lui risposi: «Senta, è dal 1922 che io ho a cuore non solo le sorti di Milano ma di tutta l’Italia. La ruota dell’insurrezione ha già incominciato a girare. Non saremo né io né lei a fermarla». Oh, io non ebbi mai dubbi sul fatto che Mussolini dovesse arrendersi al CLN e venir fucilato. Dovevamo impedire che finisse nelle mani degli alleati che lo volevano vivo. Sul fatto di impedire che finisse nelle mani degli alleati, del resto, ci mostrammo tutti intransigenti. Non a caso, quando sapemmo che Mussolini era tornato in prefettura, volevamo prenderlo lì. Ma la prefettura era presidiata dai carri armati tedeschi e, quando arrivammo, lui era già partito per il suo destino. Cioè Dongo. Chiariamo bene questo punto: Mussolini non fu fucilato per iniziativa personale di nessuno. Non è vero, ad esempio, che Walter Audisio ricevette l’ordine da Cadorna. Lo ricevette dal Comitato di liberazione nazionale. Scritto. Il documento esiste: firmato da me per il Partito socialista, da Leo Valiani per il Partito d’azione, da Longo e Sereni per il Partito comunista, da Arpesani per il Partito liberale, da Marazza per la Democrazia cristiana, e da Cadorna. Esiste, si può trovare, si può pubblicare. Da esso risulta che il CLN si assume l’intera responsabilità per la morte di Mussolini e dà ordine di fucilarlo.

Lei personalmente gli avrebbe sparato, Pertini?
Oriana, devo dirle la verità. Io ho sempre sparato poco, e non credo di aver ammazzato nessuno. Neanche nella prima guerra mondiale dove, sebbene la avversassi, mi comportai con grande senso di responsabilità. Avevo diciannove anni quando andai a quella guerra. Ero sottotenente mitragliere e, un giorno, sulla Bainsizza... Vedo arrivare uno con le mani alzate. Fermi, dico, si dà prigioniero. Lui viene avanti, cade nella trincea, e ha il volto a pezzi. Una maschera di sangue. Sa cosa feci, allora? Buttai via il caricatore della mia rivoltella e non ce lo rimisi mai più. Da quel giorno, andai sempre all’assalto con una rivoltella senza caricatore. Così Mussolini... Poiché Mussolini doveva essere giustiziato, io non so cosa avrei fatto se fosse scappato dinanzi ai miei occhi. Penso che gli avrei sparato, sì. Ma, eccettuato quel caso, gli avrei fatto sparare da un plotone di esecuzione. Sono un uomo spiritualmente violento, le ripeto, non fisicamente violento. Quando mi dissero che il cadavere di Mussolini era stato portato a piazzale Loreto, corsi con mia moglie e Filippo Carpi. I corpi non erano appesi. Stavano per terra e la folla ci sputava sopra, urlando. Mi feci riconoscere e mi arrabbiai: «Tenete indietro la folla!». Poi andai al CLN e dissi che era una cosa indegna: giustizia era stata fatta, dunque non si doveva fare scempio dei cadaveri. Mi dettero tutti ragione: Salvadori, Marazza, Arpesani, Sereni, Longo, Valiani, tutti. E si precipitarono a piazzale Loreto, con me, per porre fine allo scempio. Ma i corpi, nel frattempo, erano già stati appesi al distributore della benzina. Così ordinai che fossero rimossi e portati alla morgue. Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per terra. Però, Oriana, bisogna anche capirlo il popolo. Bisogna capirla la plebe che ha sofferto infamie e miserie e prepotenze e, appena può, infila in una picca la testa della contessa di Lamballe. Bisogna allargare le braccia e dire: «Te lo sei voluto, contessa di Lamballe». Succederà lo stesso in Spagna quando si desteranno. Succederà lo stesso in Grecia, in Cile. È la nemesi della storia. E quando io parlo di socialismo...

Pertini, cosa significa per lei la parola socialismo?
Significa libertà. E libertà significa giustizia. Perché non può esserci libertà senza giustizia sociale e non può esserci giustizia sociale senza libertà. Io sono socialista da cinquantacinque anni, cara Oriana, e mi sono sempre battuto per le riforme perché l’essenza del socialismo è nelle riforme. Però, se mi offrissero la più radicale delle riforme al prezzo della libertà, io la rifiuterei. Oh, non c’è nulla che può essere barattato con la libertà! Nulla. Io alla libertà non rinuncerò mai, mai! Detto questo, tuttavia, aggiungo: io non posso contentarmi di una libertà in senso astratto, cioè della libertà di parlare e di scrivere. Anche prima del fascismo avevamo la libertà di parola e la libertà di stampa: ce l’avevan concessa i regimi liberali. Ma per migliaia di contadini e di poveri quelle due libertà si risolvevano nella libertà di imprecare, morire di fame. Insomma, erano libertà così insufficienti che il fascismo ce le portò via alla prima ventata di reazione. Perché la libertà sia una conquista solida, bisogna che abbia un contenuto sociale. Bisogna che affondi le sue radici in seno alla classe lavoratrice. Bisogna che effettui le riforme, che annulli le sperequazioni... Ma come è possibile che certi dirigenti statali vadano in pensione con un milione e mezzo al mese mentre altre categorie ci vanno con trenta e anche quindicimila lire? Che me ne faccio della libertà con quindicimila lire al mese? 

Poco.
Mi permetta di continuare. Quando parlo di classe lavoratrice vorrei che lei mi intendesse bene, Oriana. Io non parlo solo di classe operaia. Fare dell’operaismo è una demagogia respinta dallo stesso Lenin. Quando parlo di classe lavoratrice io parlo anche dei ceti medi. Quei ceti medi che non capiscono come i loro interessi non coincidano con gli interessi dei grandi industriali, dei grandi capitalisti: coincidono con gli interessi degli operai, dei contadini! Non capirlo è, da parte dei ceti medi, ripeter l’errore commesso dalla media borghesia in Cile, in Grecia, e nell’Italia del 1922. Quando, nel 1922, gli squadristi si scagliavano contro di noi, i rappresentanti della media borghesia restavano indifferenti e magari dicevano: «Eccoli messi a posto questi sovversivi, questi disturbatori dell’ordine pubblico». Cominciarono a capire il fascismo solo quando il fascismo si scagliò contro liberali come Piero Gobetti e Giovanni Amendola, contro sacerdoti come don Minzoni. Ogni volta che i ceti medi credono di far coincidere i loro interessi con gli interessi dell’alta finanza, essi vengono colpiti dalla dittatura. Guardi il Cile. In Cile la Democrazia cristiana ha assecondato il golpe nella speranza che, dopo, i militari le offrissero il governo su un piatto d’argento. E invece Pinochet ha detto no, il governo me lo tengo.

In Cile hanno sbagliato anche gli operai.
Sì. Contro Allende hanno commesso gli stessi estremismi infantili che avevano commesso in Italia nel 1922. Ma io continuo a credere negli operai. Ci credo anche quando sbagliano perché essi sono la mia famiglia. E non si condanna la propria famiglia, non si abbandona la propria famiglia quando sbaglia. Del resto un socialista che si stacca dalla classe operaia e contadina cessa d’essere un socialista: io non mi staccherò mai da loro, Oriana. Mai! I contadini di Bitonto non sanno cosa volle dire per me la loro stretta di mano nel 1949. Quando ebbi finito il comizio, mi vennero incontro per stringermi la mano. Avevano calli alti due dita, calli che raccontavano la fatica di anni, di secoli. E, afferrando con quei calli la mia mano bianca, dissero: «Sì, tu sei uno dei nostri ». E io fui felice di una felicità che dura ancora oggi, che mi dà ancora oggi le lacrime agli occhi. I metalmeccanici di Torino non sanno cosa ha voluto dire per me parlargli nel comizio per il Cile. La loro coscienza internazionale è così grande, così profonda. E il loro senso della libertà. Hanno capito meglio di tanti intellettuali quel che è successo in Cile, quel che è successo in Cecoslovacchia, quel che succede nell’Unione Sovietica con Sacharov. Se ne sono offesi più di tanti intellettuali. Gli intellettuali... Oriana, io non ho mai perdonato agli intellettuali d’essere vili. Salvo una minoranza, la classe intellettuale in Italia è stata così vile! S’è adattata così presto al fascismo! Dopo s’è coperta il capo di cenere: ma prima! Oriana, io non perdono all’uomo di cultura di tradire la causa della democrazia non combattendo. Perché se la cultura è solo nozionismo, io la respingo. Cultura significa anzitutto creare una coscienza civile, fare in modo che chi studia sia consapevole della dignità. L’uomo di cultura deve reagire a tutto ciò che è offesa alla sua dignità, alla sua coscienza. Altrimenti la cultura non serve a nulla.

Pertini, ho una brutta domanda da porre. È deluso dall’Italia d’oggi?
Ah! Io direi amareggiato. Crede che non sia motivo di amarezza per me che ho lottato cinquantacinque anni in nome della libertà vedere questi rigurgiti di neofascismo? Crede che non sia motivo di amarezza sapere che tanti uomini politici, anche nel mio partito, non pensano che al loro tornaconto? Crede che non sia motivo di amarezza assistere a certi arrivismi, a certi personalismi, agli scandali che restano impuniti, alla corruzione che dilaga? Io non mi sono battuto per questo. Io non mi sono battuto per incontrare in Parlamento i rappresentanti dell’antico fascismo. Io non mi sono battuto per questa democrazia qui, così priva di contenuto e di forza. E la capisco la sua domanda, Oriana. Anzi glielo leggo negli occhi ciò che mi vorrebbe dire e non mi dice: «Pertini, la delusa son io. Perché da bambina vi consideravo uomini eccelsi, mi aspettavo tanto da voi, e voi mi avete tradito». Ha ragione. Sì. Anche tanti giovani vengono qui e mi dicono: «Ci avete deluso». Si direbbe che la classe politica uscita dalla Resistenza abbia dato il meglio di sé in vent’anni di lotta e che poi si sia messa a sedere, esaurita, incapace di mantener le promesse. Dove sono le riforme che ci eravamo impegnati a fare quindici o vent’anni fa? Dove sono i risultati delle leggi che abbiamo varato in Parlamento? Dove sono le risposte al malcontento? Perché è inutile che mi si venga a dire: bisogna-sciogliere-il-Movimento-sociale. Non serve a nulla: sciolto il Movimento sociale, sorge un altro movimento fascista. Non è tagliando le foglie della gramigna che ci si libera della gramigna. La gramigna va estirpata alle radici, dopo essersi chiesti perché nasce e su quale terreno. Nasce per il malcontento, sul terreno del malcontento. Questo malcontento che noi, classe dirigente, nutriamo. E mi ci metto anch’io, sebbene io non abbia responsabilità dirette. E dico: abbiamo fatto un cattivo uso del potere.

Oppure vi siete lasciati sfuggire il potere, vi siete lasciati rubare il potere? A me non sembra che la classe dirigente italiana sia proprio quella uscita dalla Resistenza.
È vero anche questo. In fondo non c’è riuscito tenere il potere: per un complesso di ragioni anche internazionali. Siamo caduti nella zona di influenza americana: Piano Marshall, Patto atlantico, NATO. Gli americani temevano una rivoluzione e ci hanno impedito di fare ciò che avremmo dovuto. Ci hanno rimesso in mano i vecchi arnesi del fascismo, i questori Guida, sicché è un po’ successo in Italia ciò che successe in Francia dopo la rivoluzione francese: quando tornarono a galla i vecchi arnesi del vecchio regime. La sua domanda è giusta. Non si può certo dire che, perfino nel dopoguerra, la classe dirigente italiana fosse quella che aveva condotto la lotta contro il fascismo. Almeno in buona parte era composta da coloro che erano stati responsabili del fascismo o che avevano tenuto a balia il fascismo. Come Orlando, come Bonomi. De Gasperi no, perché De Gasperi aveva tenuto un atteggiamento fiero, preciso. Però tenga presente che, nel 1947, De Gasperi sbarcò dal governo noi socialisti e si tenne solo i socialdemocratici e fece piazza pulita degli antifascisti che avevamo messo nelle prefetture, ad esempio, nella polizia. Noi avevamo creato elementi nuovi: questori non usciti dal fascismo o addirittura antifascisti, sa? Questori e prefetti che eran stati partigiani, su al nord. Ma lentamente, lentamente, il governo centrale di Roma ce li tolse. E rimise i vecchi arnesi, senza che noi riuscissimo a impedirlo. 

E il risultato è che oggi la polizia italiana è in gran parte fascista.
Oriana, non è che voglia fare il difensore d’ufficio. Ci mancherebbe altro. Ma la colpa non è tutta dei poliziotti e dei carabinieri. La colpa è di chi non gli ha mai spiegato che non devono considerarsi al servizio della classe padronale, che la classe padronale non rappresenta l’ordine. Io gliel’ho detto in tanti comizi, invece: «Non dovete considerare malfattori i lavoratori che scendono in piazza. A parte il fatto che quel diritto gli è concesso dalla Costituzione, essi non sono malfattori. Sono lavoratori che protestano per difendere le loro famiglie. E quindi anche le vostre. Perché anche voi siete figli di contadini, anche voi siete figli di operai. Non lo capite che la classe padronale non scende in piazza perché non ne ha bisogno?». E agli operai ho detto: «Non dovete considerare i carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza come nemici da combattere. Non sono vostri nemici, sono figli di operai e contadini come voi!». Il guaio è che i nostri carabinieri e ancor più i nostri poliziotti si mettono sull’attenti appena vedono un padrone. Sono rimasti al tempo in cui l’autorità era rappresentata dal parroco, dal feudatario, dal maresciallo dei carabinieri e tutti gli altri eran sudditi. Però com’è che, quando gli spiego certe cose, capiscono? Com’è che a Rimini un colonnello di pubblica sicurezza mi ha detto: «Lei ha parlato come si deve parlare, senza asprezza né settarismo. Permetta che le stringa la mano». Com’è che a Saluzzo un maresciallo dei carabinieri ha pianto per la commozione? Io conosco un dirigente della polizia che dice: «Tocca a noi rieducarli, presidente. Da soli non possono rendersi conto che a spingere in piazza gli operai sono i padroni. Abbiamo avuto una polizia borbonica, poi una polizia papalina, poi una polizia fascista. Farli diventare democratici è un lavoro lento, faticoso, ma non impossibile». Oriana, non sono tutti fascisti. Non sono tutti Guida. E lo stesso discorso vale per l’esercito. Non bisogna dimenticare i seicentomila soldati e ufficiali che finirono nei campi di concentramento, i trentamila che vi morirono insieme a settemila carabinieri, la divisione Acqui che combatté a Cefalonia e a Corfù contro i tedeschi, la divisione Sassari che si batté a Porta San Paolo contro i tedeschi, il generale Perotti che fu fucilato insieme a due operai a Torino, gli alpini che andarono coi partigiani di Cuneo. Non devono dimenticarlo nemmeno loro. E, se lo dimenticano, bisogna ricordarglielo!

Pertini, parliamo ancora dell’Italia che l’amareggia. Cosa ne pensa della lista nera compilata dalla Rosa dei Venti per ammazzare milleseicento antifascisti, tra cui lei?
Penso che in questa storia si debba risalire ai mandanti, alla sorgente. Ovunque essa sia e anche se, come temo, essa non è in Italia. Esiste una ondata di reazione nel mondo: guardi cosa accade in Cile, in Bolivia, in Brasile, in Uruguay. Guardi cosa accade in Grecia, nella stessa Francia dove non funziona più il Parlamento e la libertà. Abbiamo il diritto di sapere chi sono i mandanti. Abbiamo il diritto di sapere chi ha spinto i colonnelli in Grecia, chi ha spinto i generali in Cile, chi ha triplicato gli agenti segreti prima del colpo di Stato. Chi sono i mandanti? Cercateli, i mandanti. Però non vorrei che, una volta trovati i mandanti, si restasse lì paralizzati in un atteggiamento reverenziale. O addirittura balbettando: «Spiacenti, non possiamo parlare». Non mi induca a dire quali sono le potenze straniere cui alludo, Oriana. Nella mia qualità di presidente della Camera non mi è permesso far nomi, ma sappiamo bene di chi sto parlando perché i dubbi d’un tempo sono diventati certezza. Sì, più degli sciagurati che volevano ammazzarci a me interessano i mandanti: non è possibile che le piste rosse si trasformino sempre in piste nere! Strage di piazza Fontana: il questore Guida annuncia subito la pista rossa, Pinelli e Valpreda, poi viene fuori che è una pista nera. Bomba in via Fatebenefratelli: idem. Episodi di Padova: idem. Ora sono a Padova e non è possibile che si tratti di episodi isolati, indipendenti l’uno dall’altro. C’è dietro un’organizzazione che assomiglia tanto a quelle di altri paesi. Ma è così chiaro che si vuol turbare l’ordine pubblico per ristabilire con la forza l’ordine pubblico! Come coi colonnelli in Grecia, coi generali in Cile. E noi non vogliamo che l’Italia diventi una seconda Grecia, un secondo Cile. 

Scusi, Pertini...
Cosa c’è? Cosa vuole? Vuole un caffè?

No, no. Io...
Mi permetta di continuare, di spiegare. Perché vede, Oriana, io sono veramente costernato per quanto avviene in America con lo scandalo del Watergate. Però in America non l’hanno messo a tacere: hanno cercato di andare a fondo. Con il Congresso, la stampa, la televisione... Qui invece! Si parla dello spionaggio telefonico. Poi non se ne parla più. Ma come?!? Di una cosa simile non se ne parla più? E perché? Perché non si viene a sapere chi vuole le intercettazioni e chi le paga? Tom Ponzi? Ma Tom Ponzi non è che una pedina, poi è libero ora e non parla di certo! Oh, è una cosa che urta la coscienza civile. Giorni fa mia moglie telefona a un’amica e questa, dopo un poco, le dice: «Guarda, Carla, ti lascio perché è chiaro che il tuo telefono è controllato». Allora si inserisce una voce e: «Me ne vado, signora, me ne vado. Così loro parlano tranquillamente. Tanto devo smontare». Capisce?!? E non creda che sia controllato soltanto il telefono del mio appartamento in Montecitorio: anche il telefono di questo mio ufficio è controllato. Né mi stupirei se nella stanza ci fosse un microfono. E lei crede che il controllo non sia legato ai fatti di cui discutevamo prima?

Ovvio che lo è! Pertini, lei non teme un colpo di Stato in Italia?
È una domanda che mi hanno posto in molti. Oriana, può darsi che mi illuda... Può darsi che il futuro mi smentisca perché prevedere la storia è difficile e fare il profeta è rischioso... però la mia convinzione gliela devo dire. E la mia convinzione è che un colpo di Stato in Italia non possa avvenire perché, se avvenisse, ogni piazza d’Italia diventerebbe una piazza di guerra. Oriana, ad Atene cinquemila studenti hanno incitato la popolazione a insorgere. E i politici non hanno risposto. In Italia risponderebbero, eccome. Centinaia di uomini politici si metterebbero alla testa dei giovani e avrebbero con sé gli operai di Genova, Torino, Milano, Firenze, Bologna, perfino Roma, sì! Io li ho visti alla manifestazione di Torino per il Cile. Una manifestazione organizzata dai metalmeccanici. C’erano tutti: anche i contestatori. Centocinquantamila persone, e quattromila erano giunte dalla Francia. No, io non credo a un colpo di Stato in Italia. Che qualcuno pensi di farlo non v’è dubbio: ma una cosa è pensarci, una cosa è attuarlo. Non si dimenticano tanto presto vent’anni di esperienza antifascista e due anni e mezzo di lotta armata. E poi il movimento operaio, quando è compatto, è una barriera di ferro. In Italia è compatto. Ha tre sindacati formidabili. E non mi venga a dire che contro i carri armati non si fa nulla, che i golpisti avrebbero le armi e noi no. Le armi si trovano. Si dà l’assalto alle caserme e si prendono le armi, come abbiamo fatto nella Resistenza. Oh, sarebbe più che lecito assaltare le caserme per difendere la libertà. Sarebbe un dovere! E poi guardi: a mio parere, gli ufficiali del nostro esercito sono fedeli. Ci sono i paracadutisti, lo so, forse ci sono anche alcuni sbandati pronti a farsi trascinare. Ma, nella gran maggioranza, gli ufficiali del nostro esercito non dovrebbero tradire il loro giuramento.

Pertini, forse mi sbaglio ma penso che il pericolo maggiore non stia negli americani, nella CIA, nella NATO, nei paracadutisti eccetera. Sta negli italiani che si augurano sempre l’uomo forte. Pertini, non le viene mai l’atroce dubbio che gli italiani siano in fondo al cuore fascisti?
No! Non sono del suo parere, no! Che in Italia il terreno qualunquista, così vicino al terreno fascista, sia un terreno fertile, è vero. Che alcuni italiani siano tanto cretini da augurarsi l’uomo forte è altrettanto vero. Come se non lo avessero già avuto, l’uomo forte. Come se ora non ce l’avessero in Grecia e in Cile. Come se ignorassero a cosa conduce: alle fucilazioni, alle prigioni zeppe, al terrore, all’inflazione... Sì, anche all’inflazione: in Cile i prezzi sono aumentati del cinquecento per cento da quando c’è Pinochet. E chi ha pagato, chi paga, per l’inflazione, se non la piccola borghesia che era contro Allende e sempre si illude di avere interessi in comune con il grosso capitale? Sì, gli italiani qualunquisti ci sono, i cretini ci sono, ma queste verità marginali io non le considero quando mi tuffo nel popolo e tra la gioventù. Non vivo in una torre d’avorio: la realtà la conosco. Il popolo non è fascista: è sano. La gioventù non è fascista: è sana. Perché basarsi su una minoranza per cui il fascismo non è stato una lezione? Perché temere i nostalgici e i figli di papà? I più sono con noi e, anche se non hanno fatto la Resistenza, hanno assorbito gli ideali della Resistenza. Mi capiscono bene quando grido: «Non permetteremo la libertà di uccidere la libertà». Quando gli ho parlato a Perugia gridavano: «Presidente, difenderemo la libertà, stia sicuro che la difenderemo!». Quando gli ho parlato a Torino, sprizzavano libertà da tutti i pori della pelle. E se domani succedesse qualcosa in Italia, non ci sarebbero solo i metalmeccanici nelle piazze, mi creda, non ci saremmo solo noi antifascisti dai capelli bianchi, ci sarebbero anche i giovani. Lasci perdere gli stupidi, gli scervellati, i provocatori che si abbandonano alla violenza materiale per portare acqua al mulino dei fascisti. Lasci perdere i... 

Pertini, io temo che gli italiani non sappiano vivere nella libertà.
Ah, questa frase! Meno brutalmente me l’ha detta anche l’ambasciatore inglese. E io le rispondo ciò che ho risposto a lui: in Inghilterra la libertà dura da secoli, in Francia se la sono conquistata attraverso tre rivoluzioni, e noi... Cosa abbiamo avuto noi al posto di Cromwell e delle rivoluzioni francesi? L’unità d’Italia ci venne solo nel 1870 quando annullammo lo Stato pontificio. Il suffragio universale ci venne solo nel 1910. Al Parlamento i socialisti cominciarono a entrarci solo quando ci entrò Pietro Chiesa. E in più ci sono stati vent’anni di fascismo, cioè di diseducazione politica. Alla libertà vera il popolo italiano si affacciò solo nel 1945. Ma son passati venticinque anni, replicherà lei. Oriana, cosa sono venticinque anni per educare un popolo alla libertà? Cosa sono di fronte ai secoli di libertà in cui sono stati educati gli inglesi e anche i francesi? Non v’è dubbio che il popolo italiano abbia ancora incrostazioni fasciste. Non v’è dubbio che le incrostazioni fasciste siano nella polizia. Sono perfino nella magistratura, nella scuola. E i ragazzi che escono da tale scuola, i ragazzi che crescono in tale società, non possono certo risultare uomini liberi e ben formati. Ci vuole pazienza, perbacco! Lei è troppo impaziente. Vedrà che le nuove generazioni saranno più capaci di vivere nella libertà. Ah, io credo nei giovani. Ne ho ricevuti trentamila da quando son presidente della Camera e il mio giudizio su loro non è avventato. Una volta sono venuti in trecento, qui. Sono rimasti tre ore e mezzo a parlare con me e il loro preside, quel Lo Cascio, ripeteva: «È stanco, presidente?». Sicché a un certo punto mi sono arrabbiato e gli ho detto no, sarà stanco lei, vada nel mio ufficio e si faccia offrire un aperitivo e la smetta di sollecitarmi a concludere questa conversazione! 

Scusi, Pertini...
In un altro salone c’erano due ambasciatori che aspettavano per entrare e, a momenti, combino un incidente diplomatico. Ma io non volevo lasciarli, quei trecento giovani. Una bella figliola m’aveva chiesto se potevan sedersi per terra, così s’erano seduti per terra...

Scusi, Pertini...
Cosa c’è? Cosa vuole? Desidera un caffè?

No, no. Io...
Non le ho offerto nemmeno un caffè! Che brutta figura! Dio, che sbadato!

No, Pertini. Mi chiedevo, le chiedevo... Sono quattro ore che parla e non vorrei che stavolta fosse stanco davvero.
Stanco?! Stanco io?!? Sarà stanca lei. Come Lo Cascio.

Io non sono Lo Cascio!
Però mi chiede la stessa cosa!

E va bene. Continuiamo. Ho una domanda sul Partito socialista e...
Ah! Il Partito socialista! Oriana, io mi pento sempre d’essermi lasciato trascinare da un’ira. Ma non mi pento per le ire cui mi sono abbandonato in certi congressi del mio partito perché erano ire sante. Sante! Perbacco, eravamo il secondo partito d’Italia. Superavamo il Partito comunista. Contrariamente alle previsioni, il corpo elettorale ci aveva dato tutti quei voti e... Contrariamente alle previsioni, Oriana! Perché, siamo onesti: noi socialisti eravamo così pochi in carcere! Così pochi al confino! A parte quelli del Partito d’azione, erano quasi tutti comunisti. Su settecento confinati, a Ponza, cinquecentocinquanta erano comunisti. Su ottocento, a Ventotene, settecentocinquanta erano comunisti. E le formazioni partigiane non erano quasi tutte comuniste? A competere, in fondo, trovavi solo le brigate del Partito d’azione. Io lo ricordo Ernesto Rossi quando, al confino, mi diceva: «Non riuscirete più a mettere insieme il Partito socialista!». Lo ricordo quando ripeteva: «Il Partito socialista di domani è il Partito d’azione. Dopo la guerra voi non esisterete più». Ci credeva chiunque. Solo io rispondevo: «Vi sbagliate. Dimenticate che la tradizione del Partito socialista, in Italia, ha profonde radici. Risorgeremo dalla tradizione, malgrado gli errori commessi». E fu così. Fu un po’ come dice Renan quando dice che il cristianesimo vive nel cuore degli uomini nonostante i preti. Il socialismo visse nel cuore degli italiani nonostante i socialisti. E il partito ebbe una valanga di voti, e noi... 

Voi rispondeste subito con le scissioni.
Sì. E quanto mi sono battuto contro le scissioni, Oriana! Quanto mi sono arrabbiato coi socialdemocratici nel 1947 e con quelli del PSIUP nel 1964! Quante volte ho gridato non-solo-queste-scissioni-tornano-a-danno-del-socialismo-ma-del-movimento-operaio-e-del-paese! Pensi cosa rappresenteremmo oggi in Italia se non avessimo fatto le scissioni! E pensi cosa abbiamo provocato invece: l’indebolimento del socialismo, la delusione del popolo italiano... Sicché tutti, ora, ci guardano con diffidenza. E ce lo meritiamo perché abbiamo mancato al nostro compito. Noi socialisti, quando non sappiamo cosa combinare, ci dividiamo. Se domani tre socialisti finiscono naufraghi in un’isola deserta, sa cosa fanno? Prima issano un cencio bianco perché una nave li veda, poi strappano il cencio in tre parti e formano tre correnti del Partito socialista. È la nostra maledizione. Da cosa viene tale maledizione io non lo so. Forse da una radice anarchica. Sì, un po’ di Bakunin c’è. Senza dubbio. I miei compagni non vogliono che lo dica ma, se non siamo un po’ anarchici, siamo troppo individualisti. D’accordo: democraticamente è una cosa buona. In un partito democratico si deve discutere e non accettare la rigida disciplina del Partito comunista. Nella disciplina il Partito comunista condensa la sua forza ma anche la sua debolezza: essa lo tiene compatto ma allo stesso tempo gli impedisce di far circolare le idee. Però, accidenti: noi socialisti paghiamo un prezzo troppo alto per far circolare le idee. Dico: una cosa sono le correnti di pensiero e una cosa sono le correnti organizzate che diventano fazioni organizzate, un partito nel partito. Bisticciai in questi termini con Saragat. Poi andai a Palazzo Barberini e cercai di convincerlo a non fare la scissione. Non m’ascoltò. Andai anche da quelli del PSIUP, anni dopo. Non mi vollero ascoltare nemmeno loro. Io non sono mai riuscito a farmi ascoltare. Solo dopo hanno detto: «Aveva ragione Sandro».

Anche Nenni? Io mi son sempre chiesta quali fossero, in realtà, i suoi rapporti con Nenni.
Rapporti di amicizia e di stima reciproca, anche se spesso abbiamo dissentito violentemente. Ma definire dissensi le nostre dispute è perlomeno inesatto perché si è trattato di dispute gravi, gravi... Nel 1948, ad esempio, quando Nenni volle a ogni costo la lista unica coi comunisti. Per me era un errore grossolano. Così, al congresso dell’Astoria, mi battei come una tigre contro di lui. Sostenni che dovevamo presentarci da soli perché eravamo noi a interpretare la tradizione socialista: presentarci in lista unica sarebbe servito soltanto a portare acqua al mulino socialdemocratico. Saragat non ci aveva forse accusato, un anno prima, d’essere fusionisti? Non s’era forse staccato da noi servendosi di quell’accusa? La lista unica coi comunisti gli avrebbe dato ragione e avrebbe rischiato di portarci chissà dove. Prima la lista unica, poi il gruppo unico alla Camera, e infine il partito unico. Com’è mio costume, non feci l’anticomunista ma Nenni vinse ugualmente e io ne soffrii. Eppure non persi il mio affetto per lui. Non l’ho mai perduto. Ho sempre voluto bene in modo fraterno a quest’uomo con cui mi litigavo. Non ho mai potuto dimenticare che anche lui ha dedicato la vita alla causa della libertà, della democrazia, della classe lavoratrice. Ma lui ne ha abusato, sa? Ne ha abusato eccome. Sapeva che gli volevo bene e se ne approfittava. Diceva: «Tanto ho l’appoggio di Sandro! Lui si urta con me e poi, all’ultimo momento, sta con me. È così legato al partito!». Capito? Il peggio è che ha ragione: al partito ci sono legato. Non lo lascerò mai. Come la politica. Mi spengerei.

E con Saragat?
Lo stesso. O quasi. Certo, quando Saragat è diventato socialdemocratico, mi sono molto staccato da lui. Anche in senso affettivo. L’ho aggredito aspramente nei comizi. L’ho trattato senza peli sulla lingua ma vede… ecco... insomma: non è che Saragat mi sia meno simpatico di Nenni, però io ho sempre sentito un maggior affetto per Nenni. E non solo perché Nenni è sempre stato fedele al partito ma perché Nenni ha una carica umana che Saragat non ha. Oh, io la carica umana ce l’ho più di Nenni. Voglio dire: tutti e due abbiamo una forte carica umana ma la mia è superiore a quella di Nenni e...

Via, lo dica.
Lo dico, lo dico! Dico: considerata quella carica umana, è strano che il grande legame non sia tra Nenni e me, bensì tra Nenni e Saragat. Uh, c’è un tale affetto tra i due! Sono come due amanti che si ripetono: «Nec sine te nec tecum vivere possum. Né con te né senza di te posso vivere». Sa, la poesia di Catullo e di Lesbia. Si amano di un odio-amore quei due. Si amano così fin dal tempo in cui erano fuorusciti in Francia. Non ha capito perché la riunificazione del Partito socialista andò così male? Perché fu un affare privato tra Nenni e Saragat: non un’operazione di base ma un incontro al vertice. Non poteva che finire in malora, infatti io lo avevo previsto che sarebbe finita in malora. Oriana, posso raccontarle una storia che spiega benissimo i rapporti tra Nenni e Saragat. È la storia della mia evasione da Regina Coeli. Dunque, nell’inverno 1943-44, io ero a Regina Coeli. E c’era anche Saragat. E tutti e due eravamo condannati a morte dai tedeschi. Lo sa come facevano i tedeschi: condannavano a morte anche senza processo, in via amministrativa. Poi pescavano da quel pozzo di San Patrizio e fucilavano per rappresaglia. Io e Saragat stavamo nel braccio tedesco insieme a quattro ufficiali badogliani. E i nostri preparavano la fuga. Ci pensava Giuliano Vassalli che era al tribunale militare italiano, Alfredo Monaco che era il direttore del carcere, sua moglie Marcella, Filippo Lupis, Giuseppe Gracceva. La prima parte dell’operazione consisteva nel trasferirci dal braccio tedesco al braccio italiano e a questo provvide Vassalli. Poi Gracceva mi mandò a dire che dovevo prender contatto con Monaco fingendo un attacco di appendicite, e ubbidii. Una notte mi metto a urlare oddio-sto-male-chiamate-d’urgenza-il-medico, così arriva Monaco, finge di visitarmi e intanto mi sussurra di stare pronto: si prepara la mia fuga e quella di Saragat. «No», rispondo. «No. Io e Saragat soltanto, no. Ci sono anche gli altri quattro. O tutti e sei o nulla. » Monaco riferisce ai compagni, badate-che-Pertini-stapuntando-i-piedi, i compagni riferiscono a Nenni, e Nenni dice spazientito: «Ma fate uscire Peppino! Sandro il carcere lo conosce, c’è abituato. Peppino no, poveretto. Per lui è la prima volta. Pensate a Peppino, poi penseremo a Sandro». Bè, mi andò liscia ugualmente: Vassalli fabbricò i fogli di scarcerazione, Ugo Gala li fece trovare sul tavolo del direttore insieme alla posta del mattino, e uscimmo tutti e sei. Ma appena vidi Nenni glielo dissi: «Pietro, cos’è questa storia del fate-uscire-Peppino-pensate-a-Peppino-tanto-Sandro-al-carcere-c’è-abituato? E che? Siccome c’ero abituato, ci dovevo morire?».

Pertini, sono quasi le due del pomeriggio e lei non ha ancora mangiato. È sicuro di non sentirsi stanco?
Le ho detto di no! È stanca lei?

No, no. Continuiamo. Cosa provò quando la condannarono a morte?
Vede, Oriana: io non ho mai avuto paura della morte. Me la son vista addosso tante volte, alla guerra e sotto i fascisti, che non mi ha mai impressionato. Non solo: non ho mai conosciuto la paura fisica. Mica che sia un merito, eh? La paura fisica è un fatto nervoso contro cui si reagisce male anche se si è persone intimamente coraggiose e fiere. È come un mal di denti che c’è o non c’è. Alcuni sopportano il mal di denti e altri no. Infatti le persone che ammiro non sono quelle che ignorano la paura: sono quelle che avendo paura vanno avanti lo stesso. Così, quando seppi d’essere stato condannato a morte, io avvertii solo il bisogno di scrivere il mio testamento politico e di nasconderlo dentro le scarpe perché, dopo la fucilazione, lo dessero ai compagni. Del resto anche Saragat si comportò bene. Niente lacrime, niente nervosismi. Oddio: non poteva certo saltare di gioia. Infatti fu colto da una giusta preoccupazione per la famiglia eccetera. Però si comportò bene, con tranquillità. E quando lasciai Roma per andare al nord e proseguire la lotta armata... Lasciai Roma perché il Papa aveva fatto sapere a De Gasperi che i tedeschi l’avrebbero evacuata se le formazioni partigiane non avessero attaccato e Nenni mi disse: «Guarda, non si fa più l’insurrezione, abbiamo deciso di non correre questo rischio, tanto i tedeschi se ne vanno». Lui e Saragat rimasero lì. Ma il mio posto non era più lì. Era dove bisognava combattere i tedeschi e i fascisti.

Pertini, è vero che non ha amici nel campo politico?
No, non è vero! Ne ho molti, invece. Anche nel campo avversario. Semmai posso dire di averne un maggior numero nel campo avversario perché... Aveva ragione Gramsci quando diceva che per esser compagni non c’è bisogno d’essere amici, e si può essere amici anche senza esser compagni. «Non t’illudere, Sandro. Io ho un’esperienza in proposito.» Ce l’ho anch’io, Oriana. Con tanti compagni di partito non mantengo nessun legame affettivo, e tanti avversari invece li considero davvero amici. Gente su cui posso contare. Per esempio, ho sempre voluto un gran bene a Ignazio Silone che uscì dal partito. E ho provato affetto, oltreché enorme stima, per Antonio Gramsci. Un profondo legame l’ho avuto con Giorgio Amendola, Luigi Longo, Emilio Sereni, Giancarlo Pajetta: comunisti. E anche con Leo Valiani del Partito d’azione. Sì, sono un uomo che tiene molto alle relazioni umane. Per l’amicizia ho un culto. Glielo spiegherebbe bene mia moglie che è il mio primo amico. Infatti, se mia moglie vuol vincermi, non deve dirmi: «Tu sei mio marito». Deve dirmi: «Allora non siamo più amici, Sandro?». E qui mi lasci dire un’altra cosa, Oriana: io voglio molto bene a mia moglie. Molto bene. Carla è la mia unica fonte di serenità. Ci sposammo nel 1946, dopo essere stati per due anni compagni di lotta. E io non volevo sposarla, sa? Non volevo perché era troppo più giovane di me e un fallimento matrimoniale sarebbe stato un dramma per me. Avrebbe incrinato la mia psiche per sempre. Io non capisco quelli che si separano e vanno per la loro strada. L’altro giorno è venuto un amico carissimo e m’ha detto ridendo: «Sai, mi sono diviso da mia moglie». Ridendo! Sì! Ho sentito un brivido ghiaccio.

Pertini, io la mando a mangiare. Sennò sua moglie...
Oh, mangio così poco, io. È il segreto della mia salute. Un po’ di carne, un po’ d’insalata e via. La sera, un po’ d’insalata e basta. Non sono goloso. L’alcool non lo tocco. Se c’è un brindisi, porto il bicchiere alle labbra e non bevo. Solo quando vado in campagna prendo un goccio di vino e lo allungo con molta acqua. Piaceva a mia madre...

Grazie, Pertini. Grazie con tutto il cuore.
Grazie a lei, cosa dice? Sapesse che sollievo è per me confidarmi a chi mi capisce e non mi fa arrabbiare. Un’evasione, un sollievo che mi concedo così raramente. Perché a me non piace mettermi in vetrina. Lo sanno anche quelli della televisione che mi chiamano sempre e io non ci vado mai. E poi la TV rovina gli uomini politici: meno ci si fa vedere e meglio è. Per altri mettersi in vetrina è un onore. Ma gli onori io li trovo così fastidiosi. Infatti questa carica non l’ho cercata: me l’hanno affibbiata e la tengo per un senso di responsabilità. Fare il presidente della Camera è una tale responsabilità. È più difficile che fare il presidente della Repubblica, creda. Tenere a bada seicentotrenta deputati, uh! Vi sono giorni in cui se ne esce stremati. Come in quella seduta che durò centocinque ore e alla fine mi venne un bel collasso che mise in disperazione la Carla. Ma lei è stanca, Oriana. È stanca, poverina. Si vede. Forse vuole andarsene. Vada... Ma torni, eh? Torni a farmi visita. Io spero di non averle dato impressioni sbagliate. Soprattutto nella faccenda delle amarezze e degli scoraggiamenti. Ne ho. Quando assisto a quell’ondata di reazione mondiale, ad esempio, o quando guardo a certi paesi socialisti che non hanno libertà. Mi prende un’angoscia, un dolore... E dico ma come, se in cinquant’anni di socialismo non sono stati capaci di dare la libertà, allora che socialismo è? Il socialismo non vuol dire soltanto liberarsi dal giogo delle catene economiche, vuol dire liberarsi dal giogo di ogni catena confessionale e ideologica... Però io non dispero dell’avvenire del popolo italiano, Oriana. Perché non dispero della gioventù. Io so bene che anche la mia generazione ha avuto una classe politica che ha lasciato venire in Parlamento tanti imbecilli. Tanta gente debole, fiacca, che non ha saputo resistere al fascismo. Eppure abbiamo trovato la nostra strada. La gioventù d’oggi troverà la sua strada. È una gioventù in gamba: non si lasci spaventare dagli scervellati, dagli sciagurati che si abbandonano alla violenza materiale, che a bordo delle loro spider vanno a disturbare gli operai della Mirafiori in sciopero, e definiscono crumiri i tre o quattro che sono rimasti a bada della centrale termoelettrica. Quelli son provocatori, glielo ripeto. La gran maggioranza dei giovani, creda, sta dalla parte della libertà. E si comporterà bene. Io lo so! Lo so perché sono un uomo di fede. E un uomo di fede non deve mai disperare. Deve credere sempre nell’avvenire.

{Da «L'Europeo», 27 dicembre 1973}

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