venerdì 8 agosto 2014

"Cent'anni di solitudine" di Gabriel Garcia Marquez

Allora cominciò il vento, tiepido, incipiente, pieno di voci del passato, di mormorii di gerani antichi, di sospiri di delusioni anteriori alle nostalgie più tenaci.

Lei lo lasciò finire, grattandogli la testa con i polpastrelli delle dita, e senza che lui le avesse rivelato che stava piangendo d’amore, lei riconobbe immediatamente il pianto più antico della storia dell’uomo.



Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito.

Ricordando queste cose mentre preparavano il baule di José Arcadio, Ursula si chiedeva se non era forse meglio sdraiarsi una buona volta nella tomba e che le gettassero sopra la terra, e chiedeva a Dio, senza timore, se credeva davvero che la gente fosse fatta di ferro per poter sopportare tante pene e mortificazioni; e chiedendo e chiedendo andava attizzando la sua stessa esacerbazione, e sentiva un’irreprimibile voglia di lasciarsi andare a imprecare come un forestiero, e di concedersi finalmente un attimo di ribellione, l’istante tante volte anelato e tante volte rimandato di mettersi la rassegnazione nei fondelli, e mandare una buona volta tutto in merda, e togliersi dal cuore le infinite montagne di parolacce che aveva dovuto trangugiare in tutto un secolo di sopportazione.




La casa si riempì di amore. Aureliano lo espresse in versi senza principio e senza fine. Li scriveva sulle ruvide pergamene che gli regalava Melquìades, sui muri del bagno, sulla pelle delle braccia, e in tutti i versi Remedios appariva trasfigurata: Remedios nell’atmosfera soporifera delle due del pomeriggio, Remedios nella taciturna respirazione delle rose, Remedios nella clessidra segreta dei tarli, Remedios nel vapore del pane all’alba, Remedios dappertutto e Remedios per sempre.

Fece allora un ultimo sforzo per cercare nel suo cuore il luogo dove gli si erano putrefatti gli affetti, e non poté trovarlo.


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